m.e.aGOSTINELLI E Richard Langton Gregory
Le piastrelle del muro di un caffè, in fondo a St Michael's Hill, #bristol
Gli echi di un’autentica architettura georgiana e vittoriana, che ondeggiano indisciplinati nella campagna colorata tra le sponde del fiume Avon, raccolgono tutta l’energia del mare fino all’università di Bristol, dove la tradizione marinaresca si fa sentire e ispira l’intuito di molti studiosi.
Proprio qui, in una delle cosiddette "red brick" universities, meritevole del Royal Charter ricevuto nel 1909, lo psicologo e neuroscienziato di fama internazionale Richard Langton Gregory, accoglie l’invito del collaboratore Steve Simpson ad abbandonarsi alla percezione: corre l’anno 1973 e quella che viene definita “Schachbrettfigur”, successivamente “Kindergarten patterns” o ILLUSIONE DELLA SCUOLA MATERNA nel 1898, comparsa su #science nell’agosto del 1900 in un articolo scritto da A. H. PIERCE dell’ Amherst College, infine nota anche come illusione di Münsterberg secondo quanto indicato dal fondatore della psicologia applicata H. Münsterberg nel 1897 dopo averla notata per la prima volta su un biglietto di abbonamento di un tram a cavalli americano, sembra proprio essere motivo di grande fermento scientifico.
Possono file oggettivamente parallele, di rettangoli neri e bianchi perfettamente alternati, distorcersi al punto da modificarsi durante l’atto percettivo ed apparire divergenti?
Vero o falso?
Sembra non esserci terreno più fertile per il Professore emerito presso la Facoltà di psicologia dal 1988 e direttore del Brain and Perception Laboratory della Medical School dell'Università di Bristol; figlio dell'astronomo Christopher Gregory, buon sangue non mente ndr, Richard Langton Gregory decide di investire tutte le sue energie per sviluppare un percorso d’indagine sulla percezione visiva e le sue illusioni descritto in “Occhio e cervello. La psicologia del vedere”, caposaldo di divulgazione scientifica del 1966, nel quale riscontrare come l’informazione condotta dagli occhi al cervello attraverso la retina, che lui stesso definisce parte specializzata, decentrata, della superficie celebrale, richieda la codifica neurale resa possibile grazie ad un flusso energetico che correla la percezione, l’aspettativa dell’atto di vedere, la maturità fisiologica e l’esperienza.
Interessante, a tal fine, è la realizzazione curata a Melbourne nel 2006 dagli architetti Steve Ashton, Howard Raggatt e Ian McDougal, che ripropongono i meccanismi dell’illusione del Café Wall sulla facciata a scacchiera di un palazzo, dove le file parallele di piastrelle bianche e nere appaiono alternate tra profili di fuga arancioni: la luminanza della linea di fuga è compresa tra le luminanze delle piastrelle chiare e scure, svelando così la formula del discernimento illusorio.
Quando il gesto non lascia traccia.
Per capire il fenomeno dell’illusione ottica e delle sue meraviglie possiamo dunque, ancora una volta, osservare il comportamento dei bambini piccoli, che smettono di scarabocchiare quando il contesto favorevole alla gestualità creativa viene meno; la ricercatrice californiana Rhoda Kellog, nel 1970, forte di una raccolta di oltre un milione di disegni realizzati da bambini tra i due e gli otto anni, ci fa riflettere sugli accadimenti dell’infanzia e sugli inaspettati risvolti dell’età adulta, descrivendo nel suo Analyszing Children’s art, come l’interruzione del precoce atto artistico non goda, generalmente, di alcuna anticipazione e si palesi, con semplicità attraverso il segno bruscamente interrotto, come sulla finestra che non ha più vapore acqueo o in un gessetto che si è frantumato tra le dita.
La traccia perde persistenza, si interrompono i processi attivi d’interpretazione inferenziale dello stimolo sensoriale, sospendendo la generazione di esperienza, l’interesse e l’elaborazione di significato. L’occhio è strumento di confine a servizio del pensiero, che non lascia mai da parte ciò che il cuore attende. Non c’è autoreferenzialità dunque nella perfezione fisiologica, non c’è disaccoppiamento tra l’atto del vedere e il piacere di aver visto.
Vedere, dunque, è anche credere.
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Image credits: Sembra questo, sembra quello, M.E.Agostinelli
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